In principio dovette essere la zuppa. Non appena l’uomo, che viveva ancora nelle caverne, riuscì in qualche modo a foggiare un recipiente resistente al fuoco, fosse di pietra incavata o già di terracotta, il passo successivo dovette essere quello di riempirlo d’acqua e di metterci a cuocere le granaglie che aveva raccolto nella sterpaglia incolta che lo circondava.
Noi, che abbiamo oggi i gusti molto raffinati, la definiremmo una brodaglia, ma a lui il risultato sembrò soddisfacente, tanto che, tra gli antichi reperti archeologici, i contenitori di terracotta, sia per l’olio sia per il vino, che per altri usi, sono fra i più antichi. E non ci deve meravigliare che quelli ritrovati in Mesopotamia, l’area felice dove è nata la nostra civiltà alimentare, possano essere datati già al 5000 a C.
Certo le zuppe primigenie dovettero poi arricchirsi anche dei vegetali che numerosi si trovavano nell’habitat circostante: ed è così che qualcuno aveva, senza saperlo, inventato il “minestrone”. Il passo successivo dovette essere quello di cucinarvi le granaglie opportunamente ridotte in farina o addirittura spezzarvi dentro una sorta di focaccia che prima era stata cotta su una pietra arroventata. Ci vorranno centinaia e centinaia di anni prima che a quella focaccia si sostituisca una pasta vera e propria, confezionata con un cereale scelto, opportunamente seccata al sole. Ecco fatta, in poche parole, la storia della pasta da cucinare nel brodo o nella zuppa. Da quel momento sarà un moltiplicarsi di formati, dovuti alla fantasia e all’abilità della massaia e successivamente all’inventiva dei fabbricanti di trafile, prima di bronzo e poi di plastiche speciali. Queste pastine dal formato minuto, da cuocere nel brodo o anche nel latte, si trovano menzionate anche in antichi testi di cucina: uno per tutti ricorderemo il Libro de arte coquinaria, di Maestro Martino da Como, il grande cuoco vissuto verso la metà del Quattrocento. Nel suo libro ci parla dei formentini, ricavati da una sfoglia piuttosto grossetta e che dovevano essere grandi come un chicco di grano, da cui, appunto, il nome.
Ma, quanti sono oggi i tipi di pasta cosiddetta da brodo? A dire un centinaio, avremmo citato solo le principali, anche se, con l’avvento dell’industria pastaria, il numero dei formati si è via via sempre più ridotto, in funzione della richiesta di mercato. Agli albori della tecnologia, dovettero essere assai più numerosi. Ricorderemo, ad esempio, che solo lungo le costiere Amalfitana e Sorrentina, all’avvento del torchio e della trafila, i formati di pasta erano più di 600 e tutti venivano cucinati soprattutto nel brodo o nelle zuppe. Quel brodo che per le mense ricche, era rigorosamente di cappone. Non abbiamo documentazione iconografica dei primi formati, fatta eccezione per qualche catalogo di rustiche trafile, ma sicuramente dovettero essere copia, più o meno semplificata, dei formati casalinghi. Diffusi endemicamente su tutto il territorio, i vari formati di pasta, non solo da brodo, hanno assunto denominazioni diverse a seconda della regione o del paese che li ha adottati. Nessuno ha pensato di fare, per una materia tanto umile, la catalogazione che nella grande cucina francese è stata fatta per uniformare le tecnologie cucinarie. E così, riproducendo i formati, ciascuno ha dato il nome che gli sembrava più adatto. La fantasia popolare ha attinto ispirazione all’aia domestica e sono così nati i galletti, le crestine di gallo, i denti di cavallo, e per i formati tondi con forellino centrale, c’è tutta una teoria di “occhi” che va dal grande al piccolo, fino all’ìnfinitesimale, con gli occhi di lupo, quelli di pernice, quelli di passero e più giù, sempre più piccoli, fino agli occhi di pulce e alle punte di ago. Ci viene da domandarci quali mani riuscissero a confezionare paste del genere prima dell’avvento delle trafile. Per denominare i formati minuscoli, è stato dato uno sguardo anche alle condizioni meterologiche, dalla variazione delle quali dipendeva spesso la fame o l’abbondanza sulle mense contadine. Sono nate così le tempestine e le grandinine, molte delle quali, con l’avvento delle moderne trafile, sono state foggiate in forma di minuscoli cristalli di neve. Le umide sere d’estate hanno suggerito il nome alle lumachelle o alle lucciole, mentre dalla foresta sono usciti i folletti e i diavoletti. Poi, ci sono state le guerre, che da sempre hanno succhiato manovalanza nelle campagne. Chi tornava, e se tornava, dalle campagne d’Africa, raccontando la sera attorno al fuoco consuetudini di luoghi e di persone sconosciute, avrà acceso la fantasia della massaia e degli antichi fabbricanti di trafile. Sono nati così i bengasini e i tripolini, entrati nel mercato nel 1911, le abissine e gli assabesi. Di questi ultimi abbiamo quasi quasi una data di nascita, che possiamo far risalire al 1869, quando la società genovese Rubattino acquistò, per i suoi traffici commerciali, sulle coste del Mar Rosso, la baia di Assab. Tutti questi nomi non si riferiscono sempre agli stessi formati: qualche volta sono la fantasiosa riproduzione dei copricapo africani o sono mutuati dagli anelli che le donne africane di Bengasi portano alle orecchie.
Regine e Re popolano l’immaginario semplice della massaia. Ecco nascere paste il cui nome è dedicato ai nuovi regnanti d’Italia: nascono così reginette e reginelle, dal formato arricciato come deve essere una vera corona principesca, e perfino le mafalde e le mafaldine, in onore della principessa Mafalda, nata nel 1902, e figlia del Re Vittorio Emanuele III, allora regnante. Allo stesso formato fanno riferimento, con un occhio alla nuova borghesia cittadina emergente, le signorine, le trenette, le ricciarelle, le sfresatine. Che siano nati a Parma i chifferi? Potrebbe suggerircelo il formato che deriva dal kipfel, un tipico dolcetto austriaco, di cui ricalca la forma, diffuso nel Granducato di Parma ai tempi di Maria Luigia che, lasciando la corte austriaca per entrare in possesso del suo Granducato, portò con se un nugolo di pasticceri, ai quali si deve poi la diffusione del famoso cornetto a forma di mezzaluna, in ricordo della vittoria sui turchi giunti nel 1682 fino alle porte di Vienna. In assenza dei piccoli orologi segnatempo, come facevano le nostre bisnonne a calcolare l’esatta cottura di un cibo? I tempi erano legati a quelli che si impiegavano per la recita delle orazioni: ecco così i Gloria Patri, i Paternoster, le Avemarie, trasformati in altrettanti formati minuscoli da cuocere nelle minestre in brodo. Fra le pastine minuscole da brodo, diffuse probabilmente agli inizi del Novecento, quando ci si cominciò a porre il problema dell’alfabetizzazione degli italiani, ricorderemo un formato del tutto scomparso: l’alfabeto. Le minuscole letterine che si gonfiavano nel brodo per l’infanzia, avevano forse lo scopo di far familiarizzare i bambini con quell’alfabeto che, di lì a poco, avrebbero imparato a scuola.